Dublin Core
Title
I fantasmi della miniera
Subject
racconto
Description
Le miniere del Monte Civillina sono state utilizzate fin dall'epoca romana a scopi estrattivi ma nel tempo sono diventate...luoghi di mistero.
Creator
Bernardetta Pallozzi
Source
rilettura di un racconto tratto dal volume: Luigi bertò - Le più belle storie della Valle dell'Agno, Tip. Danzo Cornedo Vicentino (VI), 2008, pag. 126
Publisher
Museo Civico D. Dal Lago
Date
2020
Format
audio mp3
Language
Italiana
Type
registrazione audio
Oral History Item Type Metadata
Duration
10' 47"
Transcription
Nel 1406 anche il territorio vicentino dovette sottostare alla volontà della Serenissima Repubblica di Venezia. La nuova Signora e padrona della zona, dopo alcuni anni che si era insediata, ripristinò le miniere di ferro e di argento de monte Civillina. La Serenissima aveva bisogno di questi minerali per far fronte alle immense spese che doveva sostenere ogni giorno per combattere i pirati dalmati che attaccavano le navi della novella repubblica.
Le miniere erano state aperte e sfruttate come racconta una vecchia leggenda anche dagli antichi romani.
Con la caduta dell'Impero Romano e le invasioni barbariche le rniniere vennero abbandonate.
Gli anni passarono, e le miniere diventarono nascondiglio e abitazione di briganti e di pastori.
I briganti che si erano insediati sul monte Civillina, per far sparire le tracce delle loro malefatte, facevano sparire i corpi delle loro vittime, gettandoli nei camini delle antiche miniere abbandonate.
I primi che incominciarono ad usare il sistema di gettare i corpi delle persone uccise negli anfratti della terra, furono un gruppo di barbari che seguivano le orde di Attila.
Alla fine alcuni elementi di questi gruppi si stabilirono nella zona.
Una leggenda ci racconta che Attila, chiamato anche Flagello di Dio, nella sua lunga ritirata per ritornare alla natia terra, passò su queste montagne seminando terrore e morte.
Una tribù barbara, che seguiva a debita distanza le orde di Attila, era più furba delle altre, e nello stesso tempo molto più cattiva e sanguinaria.
Questa tribù aspettava che le tribù di Attila se ne fossero andate per poi a sua volta rubare e distruggere quelle poche cose che si erano salvate.
Prima di andarsene queste belve umane raccoglievano tutti i corpi dei morti e dei feriti, li accatastavano su di un pianoro e quivi li bruciavano.
Si vedevano allora scene raccapriccianti, e si udivano urla spaventose. I cadaveri che si muovevano, gemiti e gemiti a non finire: era veramente una cosa dell' altro mondo.
Sul monte Civillina, le barbare genti iniziarono il macabro rituale di gettare negli antri sotterranei che si trovavano nelle pendici del monte i corpi dei morti e dei feriti che non potevano seguirli.
Tutte queste cose rimasero impresse a fuoco nella memoria delle
persone, che ebbero la fortuna di salvarsi, ed inseguito tramandate ai posteri.
Nelle lunghe notti invernali, quando il vento fischiava, o un forte
temporale imperversava sulla zona, sembrava che dalle viscere della terra uscissero dei lamenti, e questo faceva rabbrividire anche gli uomini più coraggiosi, che passavano per quei luoghi.
Le voci portate dal vento incutevano paura a tutte le persone che le udivano. Costoro cercavano di allontanarsi il più presto possibile da quella zona maledetta, facendosi il segno della croce, e raccomandandosi al buon Dio.
Erano voci che provenivano dall'oltre tomba, voci che invocavano
aiuto, e chiedevano per l'amor di Dio un sorso d'acqua.
Con il passare degli anni, ai piedi del monte Civillina si erano stabiliti alcuni carbonari, popolazione venuta dal nord.
Ben presto a questi primi abitanti se ne aggiunsero degli altri; ora vi erano numerose famiglie che abitavano nella zona, e nel frattempo gli anni passavano.
La nuova padrona di queste terre, Venezia aveva bisogno di ferro, argento e di legname. Le miniere del monte Civillina tornarono in auge.
La Repubblica del Leone aveva bisogno di tutti i prodotti che si potevano estrarre dal monte; l'arsenale e le officine di Venezia avevano gran necessità di tutto.
Dopo che gli esperti ebbero fatto un sopraluogo, la regina dell' Adriatico decise di ripristinare le antiche miriiere, mandando a lavorare i prigionieri che aveva catturato durante le tante battaglie combattute sia per terra, sia per mare.
Quivi giunti, i nuovi minatori sistemarono le poche cose che avevano in un capanno; dopo di che iniziarono a ripristinare le gallerie in cui dovevano lavorare.
I nuovi arrivati erano sorvegliati a vista da sentinelle, le quali avevano l'ordine di uccidere tutti i prigionieri che tentassero la fuga. I novelli minatori si adeguarono ben presto a questa situazione. Dopo il lavoro avevano anche delle ore libere, in cui potevano fare tutto ciò che volevano.
L'unica restrizione era quella di non uscire dal campo, pena la morte.
Le sentinelle messe a vigilare avevano l'ordine di chiamare una sola volta il prigioniero che tentava la fuga, e poi di ammazzarlo, per dare un esempio agli altri prigionieri.
Erano trascorsi alcuni mesi, da quando le miniere del Civillina erano entrate in produzione, che, all'improvviso, accade una cosa insolita, che nessuno avrebbe immaginato.
Un bel mattino, all'appello mancavano tre prigionieri; nessuno non aveva udito e veduto nulla.
I tre prigionieri mancavano. Che cosa era accaduto?
Tre prigionieri erano spariti.
Il comandante del campo, nell'udire la notizia, andò su tutte le furie, e minacciò di morte per impiccagione le sentinelle che erano in servizio quella notte.
A queste parole, anche fra i soldati incominciò a circolare la paura, poiché sapevano che il comandante era un uomo cattivo, che quando diceva una cosa, prima o poi la manteneva.
Se non venivano ritrovati i fuggitivi, per le sentinelle poteva finire
molto male.
Tutti rimasero senza parole; una condanna a morte per la fuga dei tre prigionieri era una cosa che nessuno avrebbe mai immaginato.
Conoscendo il comandante, le sentinelle erano sicure che egli avrebbe mantenuto la promessa. Alla fine, dopo che le ricerche fatte nel campo e nelle sue vicinanze non diedero risultati, il comandante spedì due pattuglie nella valle alla ricerca dei fuggitivi.
Per punizione ordinò che fosse dimezzata la razione quotidiana, fino a quando gli evasi non fossero stati ritrovati e condotti al campo.
Le due pattuglie lasciarono il campo al passo di corsa; il comandante era infuriato, la sua voce lanciava improperi a destra e a sinistra, e ciò non lasciava presagire nulla di buono.
Per quanto le pattuglie battessero la zona in lungo e in largo, alla fine dovettero ritornare alla base con le pive nel sacco.
I fuggitivi erano introvabili. Erano svaniti nel nulla.
Dopo una breve sosta al campo il comandante rispedì le pattuglie nuovamente alla ricerca dei fuggitivi, e contemporaneamente ne aggiunsero altre due.
Il comandante, diventato una belva intrattabile, urlava e gridava
come un forsennato; non voleva sentire ragione. Se non avesse trovato i fuggitivi, egli avrebbe perduto il grande prestigio, di cui godeva nella città del veneto leone.
La rabbia e la disperazione trasparivano dal suo volto; era in pochi
istanti diventato cianotico. La paura di perdere il prestigio che aveva a Venezia lo faceva fremere, nello stesso tempo era diventato nevrastenico; non ragionava più, e non voleva sentire nessun consiglio dai suoi aiutanti in campo.
A notte inoltrata rientrarono le pattuglie; avevano perlustrato la zona inutilmente per tutta la giornata; i fuggiaschi erano introvabili. Il loro arrivo a mani vuote fece imbestialire ancora di più il comandante, il quale si mise a gridare come un ossesso.
La fuga dei tre prigionieri, secondo la mentalità del tempo, valeva
la sua fine.
Il giorno successivo ricominciarono nuovamente le ricerche; per quanto cercassero e chiedessero, nessuno aveva visto passare i tre fuggitivi.
Era veramente un mistero!
Una fantastica idea balenò per la testa del comandante: forse, come si dice, poteva salvare capra e cavoli.
Il rapporto che il comandante scrisse, anche se un po' era inventato, per una parte diceva il vero.
I tre fuggitivi, secondo il rapporto, erano precipitati in un camino
di una galleria che stavano scavando, ed avevano finito la loro vita di stenti nelle viscere della terra.
Dopo questo rapporto inviato a Venezia, fra i prigionieri incominciò a circolare la leggenda dei fantasmi della miniera.
Sia durante le giornate ventose, che in questa zona sono molto frequenti, sia nelle lunghe e fredde notti invernali, quando il vento fischia dentro le oscure e buie volte delle gallerie, si creava immediatamente un'atmosfera da brivido.
Sembrava che dalle viscere del monte uscisse un'infinità di uomini, che ridevano e si rincorrevano.
I lugubri e lamentosi suoni che uscivano dalle gallerie erano una
cosa veramente spaventosa che faceva fremere e rabbrividire anche il cuore più imbruttito e duro.
Mentre nelle notti di luna piena sembrava di vedere emergere dalla montagna tre figure con dei candidi mantelli, che si posizionavano sulla cima del monte, di modo che tutti li potessero vedere.
La storia, o meglio la leggenda dei fantasmi della miniera, veniva
raccontata molti anni fa, quando nelle case non vi erano né giornali, né televisione.
Le miniere erano state aperte e sfruttate come racconta una vecchia leggenda anche dagli antichi romani.
Con la caduta dell'Impero Romano e le invasioni barbariche le rniniere vennero abbandonate.
Gli anni passarono, e le miniere diventarono nascondiglio e abitazione di briganti e di pastori.
I briganti che si erano insediati sul monte Civillina, per far sparire le tracce delle loro malefatte, facevano sparire i corpi delle loro vittime, gettandoli nei camini delle antiche miniere abbandonate.
I primi che incominciarono ad usare il sistema di gettare i corpi delle persone uccise negli anfratti della terra, furono un gruppo di barbari che seguivano le orde di Attila.
Alla fine alcuni elementi di questi gruppi si stabilirono nella zona.
Una leggenda ci racconta che Attila, chiamato anche Flagello di Dio, nella sua lunga ritirata per ritornare alla natia terra, passò su queste montagne seminando terrore e morte.
Una tribù barbara, che seguiva a debita distanza le orde di Attila, era più furba delle altre, e nello stesso tempo molto più cattiva e sanguinaria.
Questa tribù aspettava che le tribù di Attila se ne fossero andate per poi a sua volta rubare e distruggere quelle poche cose che si erano salvate.
Prima di andarsene queste belve umane raccoglievano tutti i corpi dei morti e dei feriti, li accatastavano su di un pianoro e quivi li bruciavano.
Si vedevano allora scene raccapriccianti, e si udivano urla spaventose. I cadaveri che si muovevano, gemiti e gemiti a non finire: era veramente una cosa dell' altro mondo.
Sul monte Civillina, le barbare genti iniziarono il macabro rituale di gettare negli antri sotterranei che si trovavano nelle pendici del monte i corpi dei morti e dei feriti che non potevano seguirli.
Tutte queste cose rimasero impresse a fuoco nella memoria delle
persone, che ebbero la fortuna di salvarsi, ed inseguito tramandate ai posteri.
Nelle lunghe notti invernali, quando il vento fischiava, o un forte
temporale imperversava sulla zona, sembrava che dalle viscere della terra uscissero dei lamenti, e questo faceva rabbrividire anche gli uomini più coraggiosi, che passavano per quei luoghi.
Le voci portate dal vento incutevano paura a tutte le persone che le udivano. Costoro cercavano di allontanarsi il più presto possibile da quella zona maledetta, facendosi il segno della croce, e raccomandandosi al buon Dio.
Erano voci che provenivano dall'oltre tomba, voci che invocavano
aiuto, e chiedevano per l'amor di Dio un sorso d'acqua.
Con il passare degli anni, ai piedi del monte Civillina si erano stabiliti alcuni carbonari, popolazione venuta dal nord.
Ben presto a questi primi abitanti se ne aggiunsero degli altri; ora vi erano numerose famiglie che abitavano nella zona, e nel frattempo gli anni passavano.
La nuova padrona di queste terre, Venezia aveva bisogno di ferro, argento e di legname. Le miniere del monte Civillina tornarono in auge.
La Repubblica del Leone aveva bisogno di tutti i prodotti che si potevano estrarre dal monte; l'arsenale e le officine di Venezia avevano gran necessità di tutto.
Dopo che gli esperti ebbero fatto un sopraluogo, la regina dell' Adriatico decise di ripristinare le antiche miriiere, mandando a lavorare i prigionieri che aveva catturato durante le tante battaglie combattute sia per terra, sia per mare.
Quivi giunti, i nuovi minatori sistemarono le poche cose che avevano in un capanno; dopo di che iniziarono a ripristinare le gallerie in cui dovevano lavorare.
I nuovi arrivati erano sorvegliati a vista da sentinelle, le quali avevano l'ordine di uccidere tutti i prigionieri che tentassero la fuga. I novelli minatori si adeguarono ben presto a questa situazione. Dopo il lavoro avevano anche delle ore libere, in cui potevano fare tutto ciò che volevano.
L'unica restrizione era quella di non uscire dal campo, pena la morte.
Le sentinelle messe a vigilare avevano l'ordine di chiamare una sola volta il prigioniero che tentava la fuga, e poi di ammazzarlo, per dare un esempio agli altri prigionieri.
Erano trascorsi alcuni mesi, da quando le miniere del Civillina erano entrate in produzione, che, all'improvviso, accade una cosa insolita, che nessuno avrebbe immaginato.
Un bel mattino, all'appello mancavano tre prigionieri; nessuno non aveva udito e veduto nulla.
I tre prigionieri mancavano. Che cosa era accaduto?
Tre prigionieri erano spariti.
Il comandante del campo, nell'udire la notizia, andò su tutte le furie, e minacciò di morte per impiccagione le sentinelle che erano in servizio quella notte.
A queste parole, anche fra i soldati incominciò a circolare la paura, poiché sapevano che il comandante era un uomo cattivo, che quando diceva una cosa, prima o poi la manteneva.
Se non venivano ritrovati i fuggitivi, per le sentinelle poteva finire
molto male.
Tutti rimasero senza parole; una condanna a morte per la fuga dei tre prigionieri era una cosa che nessuno avrebbe mai immaginato.
Conoscendo il comandante, le sentinelle erano sicure che egli avrebbe mantenuto la promessa. Alla fine, dopo che le ricerche fatte nel campo e nelle sue vicinanze non diedero risultati, il comandante spedì due pattuglie nella valle alla ricerca dei fuggitivi.
Per punizione ordinò che fosse dimezzata la razione quotidiana, fino a quando gli evasi non fossero stati ritrovati e condotti al campo.
Le due pattuglie lasciarono il campo al passo di corsa; il comandante era infuriato, la sua voce lanciava improperi a destra e a sinistra, e ciò non lasciava presagire nulla di buono.
Per quanto le pattuglie battessero la zona in lungo e in largo, alla fine dovettero ritornare alla base con le pive nel sacco.
I fuggitivi erano introvabili. Erano svaniti nel nulla.
Dopo una breve sosta al campo il comandante rispedì le pattuglie nuovamente alla ricerca dei fuggitivi, e contemporaneamente ne aggiunsero altre due.
Il comandante, diventato una belva intrattabile, urlava e gridava
come un forsennato; non voleva sentire ragione. Se non avesse trovato i fuggitivi, egli avrebbe perduto il grande prestigio, di cui godeva nella città del veneto leone.
La rabbia e la disperazione trasparivano dal suo volto; era in pochi
istanti diventato cianotico. La paura di perdere il prestigio che aveva a Venezia lo faceva fremere, nello stesso tempo era diventato nevrastenico; non ragionava più, e non voleva sentire nessun consiglio dai suoi aiutanti in campo.
A notte inoltrata rientrarono le pattuglie; avevano perlustrato la zona inutilmente per tutta la giornata; i fuggiaschi erano introvabili. Il loro arrivo a mani vuote fece imbestialire ancora di più il comandante, il quale si mise a gridare come un ossesso.
La fuga dei tre prigionieri, secondo la mentalità del tempo, valeva
la sua fine.
Il giorno successivo ricominciarono nuovamente le ricerche; per quanto cercassero e chiedessero, nessuno aveva visto passare i tre fuggitivi.
Era veramente un mistero!
Una fantastica idea balenò per la testa del comandante: forse, come si dice, poteva salvare capra e cavoli.
Il rapporto che il comandante scrisse, anche se un po' era inventato, per una parte diceva il vero.
I tre fuggitivi, secondo il rapporto, erano precipitati in un camino
di una galleria che stavano scavando, ed avevano finito la loro vita di stenti nelle viscere della terra.
Dopo questo rapporto inviato a Venezia, fra i prigionieri incominciò a circolare la leggenda dei fantasmi della miniera.
Sia durante le giornate ventose, che in questa zona sono molto frequenti, sia nelle lunghe e fredde notti invernali, quando il vento fischia dentro le oscure e buie volte delle gallerie, si creava immediatamente un'atmosfera da brivido.
Sembrava che dalle viscere del monte uscisse un'infinità di uomini, che ridevano e si rincorrevano.
I lugubri e lamentosi suoni che uscivano dalle gallerie erano una
cosa veramente spaventosa che faceva fremere e rabbrividire anche il cuore più imbruttito e duro.
Mentre nelle notti di luna piena sembrava di vedere emergere dalla montagna tre figure con dei candidi mantelli, che si posizionavano sulla cima del monte, di modo che tutti li potessero vedere.
La storia, o meglio la leggenda dei fantasmi della miniera, veniva
raccontata molti anni fa, quando nelle case non vi erano né giornali, né televisione.